Intervista a Catia Salvadore, scrittrice persicetana, autrice di “Gabbie”
A cura di Luca Frabetti
Cosa si prova a vedere un libro con su scritto il tuo nome?
E’ un bel sogno, di quelli preziosi, che si realizza. Ho fantasticato molte volte fin da bambina su questa possibilità: ho immaginato come sarebbe stato scorgere sugli scaffali delle librerie il mio nome fra i titoli degli scrittori che mi hanno fatto sognare con le loro storie. Forse in fondo non avevo mai creduto che sarebbe successo davvero. E invece, eccomi qua. E’ una sensazione stupenda.
Un romanzo solitamente è un susseguirsi di alti e bassi, di picchi di emozione guidati dalla narrazione; la tua è una raccolta di racconti che sostanzialmente è un susseguirsi di alti e alti, un turbinìo di emozioni continue
Sì, si tratta di certo di una lettura particolare, molto diversa da quanto siamo soliti attenderci quando abbiamo fra le mani un romanzo. Le mie storie sono brevi, e molto intense. Quasi tutte dolorose: hanno come filo conduttore l’indagine emotiva del tormento, e questo ne fa una lettura impegnativa, forte. Anche lo stile con cui sono scritti è atipico: molto sincopato, veloce, duro. In esso hanno importanza le parole quanto i silenzi. I punti, che scandiscono le frasi brevi, hanno un ruolo fondamentale. In certi momenti mi rendo conto che scrivo “per sottrazione”, cercando di togliere il più possibile al testo, per lasciare spazio ai vuoti. Tramite questo stile raggiungo quella sensazione di “alti e alti” di cui parli. E trasmetto l’intensità. In certi passaggi il mio scrivere ha a che fare con la poesia del testo, con la musicalità delle parole.
I tuoi racconti sono un flash su un evento all’apice del pathos, come una pagina strappata via da un libro: dove sono le pagine prima e le pagine dopo?
Hai colto il cuore del mio scrivere: non mi interessa la storia. La narrazione diventa funzionale ad un concetto, all’emozione che voglio trattare e trasmettere. Per questo scrivo di immagini, di strappi, di eventi violenti che s’incastrano nel quotidiano come flash, come pugni nello stomaco. Non mi interessa il prima. Sul dopo invece ho una mia personale interpretazione: la fine dei miei racconti è di solito aperta, irrisolta. Resta lo spazio per un tormento che non finisce, su cui meditare. Restano i vuoti che vengono dopo. Dopo la paura, dopo il dolore, dopo l’assenza. Il dopo nei miei racconti c’è, ed è nel non detto.
Cosa ti aspetti dal mondo letterario?
Scrivere per me è essenza di vita, una necessità personale. E’ un’arte attraverso cui mi esprimo e mi realizzo. Questo mi basta. Dunque quello che mi attendo dal mondo letterario è meno di quanto ho già avuto: io scrivo per scrivere. Aver pubblicato è già di più.
Il senso più grande che trovo nella pubblicazione è di poter raggiungere con le mie parole anche solo un cuore in più. Di poter accendere dentro alla testa anche solo di un lettore quell’emozione che indago quando metto parole sul PC. Se questo avviene, anche in un solo caso, la mia missione è già compiuta.
Fortunatamente ho un bel lavoro che amo molto, quindi le mie velleità di scrittore restano di tipo amatoriale.
Leggeremo mai un tuo romanzo?
Lo sto già scrivendo. Mi sento di dire che non manca molto alla conclusione. E’ la prima volta che mi sfido su questa misura di scrittura, ed è un’esperienza molto stimolante ma altrettanto complessa. Devo plasmare il mio stile così violento su una lunghezza nuova per me, e questo mi costa fatica. Ma sono soddisfatta del lavoro che sto facendo, spero che potremo presto sfogliarlo chiacchierandone insieme, come stiamo facendo ora.